3 Giugno 2019

Tesori per l’umanità intera

di FILIPPO MORLACCHI, PER L'OSSERVATORE ROMANO

Articolo pubblicato nel l’Osservatore Romano il 31 maggio 2019. Clicca qui per leggerlo sul loro sito web.

Incontro padre Eugenio Alliata presso il santuario francescano della Flagellazione in Gerusalemme. Settant’anni da compiere, archeologo di fama e apprezzato docente universitario, lo rintraccio mentre accompagna una coppia di pellegrini in visita presso il Terra Sancta Museum, di cui è direttore. Sta illustrando loro la pregevole fattura di alcuni sarcofagi: ne parla con la semplicità e la disinvoltura di chi descrive ricordi di famiglia, e non con il cipiglio accademico del professore. Dal suo sorriso luminoso traspare un profondo amore per questa terra e per i tesori che custodisce.

Padre Eugenio, cosa è il Museo di Terra santa? Da quanto tempo esiste? Qual è il suo scopo?

Il museo è nato più di cento anni fa come museo dei francescani di Gerusalemme, presso il convento di San Salvatore. La sua costituzione fu, per così dire, necessaria a seguito di alcuni importanti ritrovamenti. La prima scoperta avvenne a Betlemme: alcune campane, dei candelieri e un baculo episcopale del xii secolo ornati con smalti, probabilmente originari di Limoges. Bisognava conservarli e possibilmente esporli, e così furono trasferiti a San Salvatore. In seguito a Nazareth furono rinvenuti cinque meravigliosi capitelli, scolpiti da un anonimo maestro del xii secolo: stavolta si decise di lasciarli a Nazareth, e così le sedi diventarono due. In un primo momento — siamo all’inizio del secolo scorso — il padre Prosper Viaud era l’unico responsabile dei due musei. Archeologo di riconosciuta autorevolezza, francescano esemplare, intratteneva contatti con numerosi studiosi, tra i quali Charles Clermont-Gannereau, illustre orientalista ed esperto di epigrafia semitica. Così, con il tempo, il museo si arricchì di iscrizioni, talvolta rinvenute per caso dalla gente: le portavano ai frati perché ne intuivano l’importanza e dagli stessi ricevevano un piccolo compenso. Così le collezioni si accrebbero. Tra le iscrizioni più celebri, va ricordata quella dedicata ad Adriano, l’imperatore che venne a Gerusalemme durante la sua visita nei paesi orientali dell’impero nel 128 dopo Cristo. In suo onore fu eretto un monumento — arco o colonna — con alcune iscrizioni: due frammenti significativi furono trovati agli inizi del Novecento. Recentemente archeologi israeliani hanno rinvenuto la porzione mancante, e i frammenti ricomposti sono stati esposti al Museo di Israele. Anche altri frati collaborarono allo sviluppo del museo, come l’americano Cleophas Steinhausen. Era custode del cimitero dei latini al Cairo e si appassionò a raccogliere materiali egiziani che poi lasciò in gran parte al nostro museo e in parte minore alla sorella, per cui altri materiali sono adesso a Washington. Come ho accennato, il museo conteneva anche oggetti artistici. Ma da quando fu fondato lo Studio biblico francescano e iniziarono gli scavi archeologici sistematici, il museo si è concentrato sui materiali archeologici, trovando sede presso lo Studio biblico stesso, ossia presso il convento della Flagellazione. Ora però vorremmo tornare a valorizzare anche la sezione di beni storico-artistici, da ricollocare presso il santuario di San Salvatore. Ma questo progetto è ancora in fase iniziale.

Se lo si confronta con altri musei di Gerusalemme — per esempio il grande Museo di Israele o il Museo Rockefeller — si tratta di una realtà relativamente piccola. Cosa lo contraddistingue e cosa lo rende, nonostante tutto, necessario?

Gli altri musei di Gerusalemme sono “istituzionali” e quindi devono coprire tutte le epoche, dalla preistoria al presente, con materiali prevalentemente raccolti nelle campagne di scavi promosse dall’Israel Antiquities Authority, e si concentrano soprattutto sui materiali ebraici. Il nostro museo privilegia la componente cristiana della storia di Gerusalemme, benché non in modo esclusivo. Non mancano infatti i reperti ebraici e musulmani o di altri popoli scomparsi; ma il nostro specifico sono gli oggetti cristiani perché la maggior parte degli scavi francescani avveniva presso chiese o luoghi santi. Alcuni reperti sono di altissimo valore perché sono una nostra esclusiva: per esempio abbiamo frammenti di graffito lasciati dai pellegrini nella casa di Pietro a Cafarnao. Sono pezzi attualmente non esposti, in attesa dell’apertura di nuove sale al pubblico.

Come è strutturato il museo? Quale logica presiede la sequenza delle sale?

Vi sono sale sulla vita quotidiana, ad esempio oggetti di cucina, monete, pesi e misure, in cui non mancano oggetti tipicamente ebraici, come i vasi in pietra usati per la purificazione rituale, o gli ossari, anch’essi di pietra, in cui si raccoglievano, di norma, le ossa di una sola persona. L’uso della pietra è legato alle norme di purità rituale, che erano rigorosamente osservate all’epoca di Gesù più che in altri periodi. Trovare un vaso in pietra significa avvicinarsi all’epoca di Cristo o, come dicono gli studiosi israeliani, all’epoca del secondo tempio. Già sono visitabili alcune sale speciali, come quella che espone oggetti di vita quotidiana ai tempi di Gesù. C’è poi una sezione di reperti trovati presso antichi monasteri, in particolare nella regione di Betlemme. Non mancano materiali provenienti dal monte Nebo — il cosiddetto Memoriale di Mosè — dove recentemente si è recato in visita anche il presidente Mattarella. Ma il nostro progetto prevede un’espansione con ulteriori materiali provenienti da luoghi santi, dove siamo stati noi francescani a scavare: Cafarnao, Monte degli Ulivi, Betania, Santo Sepolcro. Un altro settore sarà dedicato a singole collezioni: numismatica, epigrafica, egizia, oggetti votivi cristiani. La parte storico-artistica del museo prevede invece una sezione introduttiva sulla presenza dei francescani in Terra santa, e poi una raccolta di donativi fatti ai nostri santuari dalle case reali europee, soprattutto di Francia e Spagna, e dalle repubbliche italiane. Alcuni di questi donativi sono preziosissimi, come quelli offerti per il Santo Sepolcro, per Betlemme e il santuario di San Giovanni Battista a Ein Karin. Alcuni di questi oggetti vengono tutt’ora utilizzati durante liturgie particolari o circostanze speciali. Il progetto prevede di esporli abitualmente nel museo, riportandoli però all’occasione nei luoghi di origine perché siano ancora utilizzati: questo aumenterà l’importanza del museo, mostrando che si tratta di oggetti vivi e non morti. Quando si hanno sufficienti garanzie di sicurezza, è bene che i pezzi rimangano in loco; si trasferiscono nella sede centrale solo se c’è rischio di deperimento.

Quale collezione ritiene particolarmente preziosa? E quale invece le è maggiormente cara?

Tra gli oggetti più preziosi, certamente vanno annoverati quelli che provengono dai luoghi santi. Ogni frammento ci aiuta a conoscere meglio la storia di quel santuario. Poi vi sono pezzi importanti per se stessi, in quanto si tratta di ritrovamenti unici, come i capitelli di Nazareth. Io mi sono occupato soprattutto di archeologia cristiana. Perciò il settore che mi è più caro e che cerco di curare maggiormente è quello degli oggetti votivi. Per esempio abbiamo uno stampo per produrre ampolle destinate a contenere l’olio che i pellegrini riportavano a casa. Fu trovato a Gerusalemme e riporta la scena del sacrificio di Isacco, che i cristiani ricordavano andando al Santo Sepolcro per la simbologia “Isacco — Cristo”. Cristo è significato dall’agnello immolato al posto di Isacco, e Isacco è l’umanità. La seconda parte dello stampo raffigura il profeta Daniele nella fossa dei leoni: simbolo per confortare i credenti nel momento della persecuzione. Dio interviene a salvare i fedeli che credono in lui, come ha fatto con Daniele, e se anche non intervenisse a liberarli materialmente certamente interverrà a liberarli dalla morte eterna. Questo stampo sarà esposto nella parte che sarà pronta entro due anni. È stato regalato al museo da un donatore americano di origine ebraica. Lo stampo era stato già studiato da noi in passato; lui ne è venuto in possesso e ce lo ha donato. Davvero un gesto nobile e generoso.

Quali sono i prossimi sviluppi del museo?

A Gerusalemme contiamo di ampliare la sezione archeologica e di aprire al pubblico quella con il patrimonio storico e artistico. Vorremmo ristrutturare il museo di Nazareth. Contiamo però anche di aprire altri musei in luoghi nuovi, che hanno materiali sufficienti per avere una sede autonoma, ad esempio sul monte Tabor (in fase avanzata di preparazione), a Cafarnao, ad Ain Karin, forse a Betlemme. Speriamo che i pellegrini possano sentirsi più coinvolti esponendo gli oggetti nel luogo stesso del loro ritrovamento, fatte salve sempre le garanzie di adeguata conservazione e sicurezza.

In che modo i pellegrini possono trarre beneficio dalla visita a questo museo?

Prima di tutto dal punto di vista della conoscenza intellettuale. Conoscere meglio significa apprezzare di più. C’è poi un secondo aspetto, che è quello “affettivo”. Il pellegrino è invitato ad amare queste cose non tanto come oggetti preziosi ma come cose che fanno parte della sua storia personale e comunitaria. Infine c’è un aspetto che si basa sia sull’intelletto che sull’amore: la fede. Che non è semplice conoscenza, ma si arricchisce di ciò che la mente e il cuore possono possedere. E così l’uomo è completo nei vari aspetti della sua personalità. Un museo cristiano non deve solo promuovere la conoscenza o gli affetti, ma anche sviluppare la fede.

In Israele c’è grande attenzione alla ricerca archeologica anche per motivi di natura “politica”, ossia per rintracciare testimonianze della presenza ebraica. Ci sono recenti scoperte particolarmente significative in questo senso? E quali invece solo le principali scoperte relative alla presenza cristiana?

L’interesse da parte degli ebrei alla storia ebraica e dei cristiani per le memorie cristiane non è cosa negativa. Ciascuno ama ciò che gli appartiene, ed è un bene. Da condannare è solo la distruzione di ciò che non è proprio. Ci vuole comprensione e rispetto per tutti, perché ogni uomo si inserisce in un contesto più ampio. Noi cristiani poi siamo tenuti ad amare anche quello che non è nostro, perché è il “prossimo”. Questa terra è complicata, composta da tante comunità diverse; a maggior ragione è importante che ciascuno sappia apprezzare i valori dell’altro. Rispetto e interesse reciproco sono una componente necessaria dei musei. Si rimane male se si trovano solo materiali che riguardano la storia di chi ha fatto il museo: dobbiamo amare anche quello che appartiene agli altri. Per noi cristiani poi, lo ripeto, è un comandamento.

Lei ha dedicato la vita a scavare e a cercare memorie del passato. Qual è stato il momento più emozionante della sua carriera di archeologo? Perché un giovane dovrebbe intraprendere questa strada?

Quello dell’archeologo è innanzitutto un lavoro. Se svolto professionalmente, di norma è soprattutto fatica e difficoltà, ma non sempre fatica e soddisfazioni sono egualmente distribuite. Ho lavorato molto e sono stato formato a questa dedizione assoluta. Tra quelli con cui ho collaborato ricordo padre Bellarmino Bugatti, ma chi mi ha insegnato di più è padre Stanislao Loffreda. Quello con cui ho lavorato più a lungo è stato padre Michele Piccirillo, del quale ho rilevato parte dell’attività, tra cui la cura del museo.

La Terra santa ha bisogno di cristiani impegnati nella pastorale o nella ricerca culturale?

Qui allo Studio biblico francescano abbiamo cercato di tenere unite le due cose. Ogni studioso si occupa anche della vita pastorale e dei bisogni spirituali degli altri. Tutti siamo sacerdoti o cristiani impegnati. Qualcuno si è dedicato soprattutto ai pellegrini, altri anche al servizio alle comunità cristiane locali. Padre Piccirillo, che parlava bene l’arabo, ha lavorato tanto per l’incontro tra cristiani e musulmani. Ha organizzato convegni partecipati da archeologi palestinesi, ebrei e giordani: già questo è una benedizione. Vorrei dire che anche il semplice valorizzare le memorie cristiane aiuta e sostiene la fede dei cristiani di oggi. Il cristiano riscopre la sua storia e le sue radici e impara a essere fiero di quel passato testimoniato dall’archeologia. Il cristianesimo oggi in Terra santa rappresenta una minoranza trascurata, e quindi fa bene ai cristiani riconoscere e ricordare lo splendore del nostro passato.